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Il duro lavoro del creativo.

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Settembre è sempre stato un mese particolare per me. Un mese di bilanci. Breve pausa estiva per tornare a fare ciò che si stava facendo. Ma cosa si stava facendo? Bella domanda.
Prima, ovvero l’anno scorso ho svolto due tirocini presso due aziende. In una ho curato la pubblicità on line, dove principalmente mi occupavo di sito internet, e-commerce, blog aziendale e social. Curavo i contenuti, si può dire era un lavoro di editing on line. Mi piaceva perchè è un’azienda ‘spigliata’. Si occupa di fornire una vasta gamma di gadgets per tutte le esigenze, quindi cambiava il target. Mi divertivo, era stimolante.
La seconda si occupava di climatizzatori. Ho dato una ‘rinfrescata’ all’immagine dell’azienda. Biglietto da visita, carta intestata, gli ho ‘riacceso’ pagina facebook e lanciato ‘newsletter’ di circa 1000 contatti (i quali con molta cura e pazienza sono riuscita a estrapolare dall’archivi cartacei). Per un paio di mesi mi sono sentita entusiasta, ma finito il periodo iniziale il lavoro cominciò a sembrarmi ripetitivo così come spesso accade ho percepito una sorta di irrequietezza. Della serie: tutto qui? dov’è la novità? dov’è un qualcosa che permette di mettermi in gioco?
Così ho terminato in anticipo.
Nel mentre, sono andata avanti dando diversi esami, studiando materie interessanti e non. Così la cara sociologia è diventata compagna di sbronze in compagnia di amici di sempre al bar Maurizio. C’è stato il laboratorio sulla comunicazione del rischio. Erano due giorni a settimana di 4 ore ciascuno in cui ci veniva spiegato come avviene la comunicazione in caso di terremoto o come si imposta la campagna di sensibilizzazione per spiegare a un bambino l’utilità del numero del pronto soccorso. Ci guardavamo perplessi bevendo litri di caffè alle 9 del mattino. E poco importava se ti fossi svegliato alle 8.45 ed eri scivolato giù dal letto dopo solo qualche ora di sonno. Eravamo, siamo, sono tutt’ora motivata. E la motivazione ti guida in alto. Così dicono.
E allora, facendo il punto sono a un esame dalla magistrale. Ho la tesi più o meno impostata col professore di marketing, il quale ringrazio di avermi fatto capire che questa strana cosa non ha a che fare solo con numeri e bilanci economici, ma può e deve far rima con creatività.
E allora, eccomi qua a 30 anni suonati a chiedermi cosa ne sarà di me dopo. Alla tanta voglia di arrivare in fondo si contrappone l’inesauribile ansia che mi sta montando. Il mio dopo.
Di certo c’è che il campo della comunicazione e pubblicità resta quello in cui vorrei continuare a navigare. Ma c’è una qualche possibilità di farlo senza sentirsi uno sfigato in un mare di seo specialist, social media specialist, copywriter e art director? Questo per ora non è dato saperlo.
Dopo vari corsi di photoshop dove mi con entusiasmo mi insegnavano la barra degli strumenti, infinite ore di tutorial su Youtube (con bestemmie annesse), dopo testarde lezioni di WordPress, dopo infinite serate a suon di birre con amici ‘addetti ai lavori’ a cercare di strappare qualche preziosa informazione arriva anche qualche chiamata da chi di comunicazione e advertising sicuramente se ne intende. E con essa arrivano specifiche richieste: portfolio. In uno stato di eccitazione disumana, mentre mi vedo già un’affermata art lo preparo infilandoci dentro qualche logo, adesivo, biglietto da visita, un depliant e qualcosa che ‘parli’ anche di me.
Mi metto jeans, dr martens, e una giacca minimal (tenuta da pubblicitari per intenderci). Ad accogliermi è un art director con qualche anno in più. Cercano un copy junior. Mi chiede l’età, imbarazzo. Procede chiedendomi di parlare di me, mi chiede perchè continuo a raccontargli del web marketing. Sarò in grado di fare la copy? (per me era scontato, vabè) Arriva finalmente la richiesta del portfolio. Mi alzo per prendere il mac, mi ferma dicendo che vuole quello da copy. Lascio perdere, accenno un sorriso. Mi da degli esercizi, una simulazione di quelle che potrebbero essere campagne lancio per valutare il flusso di idee.
Esco che sono del tutto demotivata, confusa e con mille dubbi. Ci hanno insegnano che dobbiamo essere a 360′, che dobbiamo saper far tutto, che nessuno ha più soldi da dare al copy, all’art e a ‘quello che segue facebook’. Alla frustrazione si mescola il brivido del nuovo. Appena fuori, con una birra in mano, da brava pubblicitaria cerco di tirarmi su con un: ‘è una selezione naturale, tutti una volta usciti da qui penseranno che è solo uno spreco di tempo ed energie, difficilmente tutti faranno l’esercizio’. Seguono giorni di fantasioso lavoro, dove finalmente assaporo la libertà mista alle catene dell’essere una fra i tanti.
Come finisce questa storia? Ho terminato dopo tre giorni, non c’erano scadenze nè impostazioni. Per fortuna. Li ringrazio per questo.Ho inviato il tutto.
Non ho ancora avuto risposta.
Noi rispondiamo a tutti, mi hanno detto. Mi fido. Sarebbero i primi a rimetterci in fatto di credibilità. La reputazione è tutto, ci insegnano.
Nel tirare le righe la vedo grigia. La vedo dura. E’ come un’altalena che ti fa salire e scendere in un’interminabile vortice. Nel salire si prova adrenalina, nello scendere ci si sente smarriti, incompresi, frustrati e a volte stanchi.
Ma nel salire c’è un’interminabile determinazione, che cresce nonostante gli ostacoli che incontri. Spesso mi chiedono cosa significhi davvero essere creativi, considerando che al giorno d’oggi è pieno di venditori di ‘fumo’.
Rispondo che i veri creativi sono coloro che ‘sentono’, vivono e hanno a che fare continuamente con dinamiche descritte sopra. Sanno conviverci, esternarle e farne qualcosa di belo E nonostante tutto si ostinano nel continuare.

The Artist is Present

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“Lo sai qual’è il bello? Dopo quarant’anni che tutti ti prendono per pazza e dicono che dovrebbero ricoverarti alla fine ottieni tutti questi riconoscimenti. Ci vuole molto tempo per farsi prendere sul serio.”
Inizia così il documentario forse dell’artista più controversa della scena artistica contemporanea, un icona della performance art. Seducente, ironica e carismatica è una donna che non ha paura e sviscera infinite sfaccettature dell’ animo umano, i limiti che noi stessi spesso ci imponiamo. Ma cos’è il limite se non la paura stessa?
La performance art si basa sulla presenza. E’ tutta una questione di energia, che in un certo senso è invisibile. Tu affronti la purificazione, elevi la tua coscienza e questo si ripercuote davvero sul pubblico. Quindi quel preciso momento di pericolo è ciò che trasporta la mia mente e il corpo nel qui e ora. Il pubblico lo sa ed è li con lei. Nella tecnica di danza sufi c’è un esercizio in cui si ruota vorticosamente in cerchio. In tutto questo ruotare c’è, in effetti, la possibilità di perdere conoscenza. Ma fuori ci sono quelli che roteano le loro spade in aria. Se perdi l’equilibrio, finirai per cadere fuori dal cerchio e sarai fatto a pezzi. Tu devi fare la danza roteante e hai la possibilità di perdere il controllo. Ma allo stesso tempo devi avere un enorme controllo mentale per non perderlo, altrimenti morirai. Marina Abramovic mette in scena nella performance questo tipo di situazione limite, per raggiungere l’obiettivo di elevare la mente. Ma quando elevi la tua mente, questo si trasmette automaticamente al pubblico. Ecco perchè l’atmosfera si riempie di tensione emotiva. Ecco perchè spesso succede che le persone scoppiano a piangere. Quindi, che cos’è una buona opera d’arte? è qualcosa che possiede quell’energia che ti mette in sintonia con quanto sta accadendo alle tue spalle. Bruce Nauman ama sempre dire: “L’arte è una questione di vita o di morte”. Suona melodrammatico, ma è proprio vero. Se prendi tutto quello che fai come una questione di vita o di morte, se sei presente al cento per cento, allora le cose accadono davvero. Meno del cento per cento non è arte degna di questo nome.

Ma cosa spinge un individuo a questo tipo di performance? Il fatto è che il corpo diventa il mezzo con cui l’artista si esprime, ma ha bisogno dello spettatore altrimenti non è performance. Quello che si crea in quell’istante è quello che conta e non si ha mai nessuna certezza. La performance può fallire per molti fattori, il pubblico può diventare incontrollabile e anche pericoloso, si corrono dei rischi e l’artista potrebbe sentirsi male. è l’ignoto e l’ignoto fa paura. Marina descrive un episodio che ebbe luogo quando aveva quattordici anni e riguardava la roulette russa, che poi avrebbe avuto ruolo in diverse sue esibizioni. In quell’occasione, lei portò una pistola e una cartuccia in una stanza, inserì la cartuccia nel tamburo, lo fece ruotare, si puntò la pistola alla testa e tirò il grilletto. Non accadde nulla. Lei passò la pistola al suo compagno di gioco, e di nuovo non accadde nulla. Lei allora puntò la pistola verso una libreria, e la pallottola penetrò nel dorso dell’ Idiota di Dostoevskij. “Pochi minuti dopo”, racconta,”mi venne un attacco di sudore freddo e tremavo in tutto il corpo. Sentivo una paura inesprimibile”. La mia personale opinione è che questa “paura inesprimibile” possa essere come una droga. E’ il gusto aspro della morte che si sente in certe situazioni estreme.
Corpo e paura quindi come limiti, che esplorati possono portare a esperienze decisamente significative. La sua performance al Museum of Modern Art di New York del 2010 prevedeva che restasse ferma seduta davanti a chiunque volesse sedersi di fronte a lei per tutta la durata della mostra, ciò significa per 8 ore al giorno, ogni giorno, per tre mesi. In tutto si sono presentate circa 800.000 persone.
Quando ho visto il documentario mi sono soffermata sulla relazione tra lei e lo spettatore.Ho visto una donna libera, era li ferma e vulnerabile e si donava completamente all’altro senza limiti, in uno stato di nulla, di libertà e altrove. In realtà si tratta di creare le circostanze spaziali adatte perchè le persone possano effettivamente dimenticare il tempo quando entrano in quella zona. E questo nella performance di Marina accadeva davvero: le persone arrivavano e restavano sedute insieme a lei per quaranta minuti e pensavano che fossero solo dieci minuti, quindi perdevano effettivamente la cognizione del tempo. Per Marina la grande novità di questo tipo di performance è che percepiamo sempre un pubblico come un gruppo, ma un gruppo è composto di tanti individui. In questa performance lei si confronta con gli individui di questo gruppo,ed è una relazione individuale. Perciò quando si entra nel quadrato di luce ci si siede su quella sedia, sei un individuo e come tale sei in qualche modo isolato. Accade che ti trovi in una situazione molto interessante perchè sei osservato dal gruppo (le persone che aspettano di sedersi) sei osservato da lei e la osservi, per cui è come una triplice osservazione. Ma poi, mentre hai lo sguardo fisso su di lei, repentinamente la situazione si capovolge e cominci a guardare se stesso. Lei quindi è solo una scintilla, uno specchio: le persone in realtà prendono coscienza della loro vita, della loro vulnerabilità, del loro dolore, di tutto ed è questo che suscita il pianto. Piangono per se stesse, ed è un momento estremamente emozionante.

La vita di Adele

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Ho visto questo film da sola al Lumiere dopo una fila di circa mezz’ora. L’ho visto e l’ ho trovato perfetto.
Quando si fa un film del genere la polemica è dietro l’angolo, come se non bastasse Léa Seydoux c’ha messo del suo e ha parlato dei metodi non proprio ortodossi del regista nel ricercare la giusta sintonia tra le due protagoniste lasciandole per ore nude sul set.
Vincitore della palma d’Oro a Cannes questo film tratta un argomento di per se alquanto controverso e azzardato – l’omosessualità, ma non credo sia questa questo il filo principale.
Adele, è un adolescente assetata di vita e sfacciatamente curiosa. Sfacciatamente è un termine che calza a pennello perchè in fin dei conti lo sono tutti gli adolescenti. E cosi anche lei, mangia e mastica a bocca aperta, si tira su continuamente i pantaloni e quando è ansiosa o imbarazzata si tormenta i capelli. Ha quello sguardo, Adele tipico dell’innocenza che se ne sta andando, lo sguardo distratto. Ha fame sì di vita, di conoscere e di assaporare le cose nuove ma quando le assaggia è come se mancasse qualcosa, la magia dell attesa finisce. “Mi sembra di far continuamente finta” confida tra le lacrime all’ amico del cuore dopo essersi concessa ad un ragazzo della sua età e si sente diversa, sbagliata. Poi c’è Emma. Emma è più grande e più orientata sia nella vita che nella sessualità. La sua è una seduzione mai volgare ma decisa nei confronti di Adele.
E poi c’è la parte che alcuni di voi conosceranno bene, minuti e attimi di intimità altrettanto sfacciata che si susseguono. Al cinema ho avuto la percezione che ci fossero più uomini imbarazzati delle donne. Ma non è l’aspetto sessuale che mi interessa. Quello c’è, e non l’ho trovato eccessivo nè fuori luogo. Questo film non è una storia di un amore e sesso tra due donne, è un film sulla ciclicità del sentimento umano. E’ universale. Come si fa a non vederne la duplicità che continuamente accompagna ogni essere umano e con la quale deve far conti fino alla fine dei giorni: il giorno e la notte, piacere/dolore, inizio e fine, vita/morte.
Abdellatif Kechiche ha vinto una scommessa ben più grande del riuscire a immortalare gli amplessi sessuali tra due donne, ci ha portato direttamente a immedesimarci e rivivere quello che tutti abbiamo vissuto: un’iniziale passione che annebia la vista e fa adorare l’altro malgrado i difetti, le differenze caratteriali, del modo di pensare dove l’attrazione fa da calamita. Per poi passare alla fase successiva, quella in cui gli animi si placano e subentrano le prime perplessità e i dubbi. E poi l’inevitabile sentirsi soli e spaesati che ti fa commettere cazzate. Si finisce così a logorare un rapporto inizialmente idilliaco e quando arriva la perdita dell’altro non resta che il dolore dell’assenza. Un dolore totale, assordante. Quello che ti fa vedere la vita attraverso una lastra di vetro e la potenza dei ricordi che non mollano la presa. Così anche Adele piange e le cola il naso e poi fa finta di stare bene, la vediamo sforzarsi di mantenere la lucidità a lavoro, con i colleghi. E quando finalmente ha un confronto con Emma, nonostante le ultime speranze e il suo definitivo rifiuto la vediamo sciogliersi dal dolore. E li vacilla anche lo spettatore perchè la sente sua quella sensazione, perchè nel frattempo è diventato anche nostro. Ma a conti fatti si tratta di una sofferenza necessaria per poter crescere, che probabilmente ti farà vedere le cose da una prospettiva diversa, una fase necessaria per entrare a fare parte del mondo di adulti, dove la realtà è ben diversa dalle fantasie.
E allora io non ho sentito la pesantezza delle tre ore di cui qualcuno mi accennava, ho letto un paio di commenti di critica e mi sono bastati per decidere di non leggerne più perchè l’impressione è quella che un tanti spettatori mancano di una certa sensibilità. Quello che ti lascia questo film è un vero regalo perchè è sincero e mai fuori luogo. E allora se il risultato finale è questo credo sia doveroso perdonare al regista i suoi metodi alternativi di lavorare sul set.

il Caso Pussy Riot: un processo politico.

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il 21 febbraio 2012 uno strano video compare sul canale Youtube. Tre ragazze con indosso vestiti colorati e passamontagna che celano i loro volti inscenano un esibizione sull’altare della Cattedrale Cristo Salvatore a Mosca, luogo simbolo della Chiesa Ortodossa. Al grido di “Madonna, liberaci da Putin” – questo è il ritornello della canzone Nadia ( Nadezhda Tolokonnikova, 23 anni), Masha (Maria Alekhina, 24 anni) e Katia (Ekaterina Samutsevich, 29 anni) gridano la loro protesta contro il rapporto sempre più stretto tra lo stato russo di Putin e la Chiesa Ortodossa. Sono solo alcune del gruppo delle Pussy Riot.
E’ l’inizio di un caso che sarà molto seguito non solo dai media locali ma dalla comunità internazionale e dividerà il pubblico in sostenitori e coloro che vorranno a tutti i costi condannare le ragazze ad una severa punizione.
Ma chi sono davvero le Pussy Riot e qual’è la loro ‘mission’?
Per rispondere a queste domande proviamo a dare ascolto direttamente a loro. Ecco cosa rispondevano alcune delle attiviste subito dopo l’arresto delle tre Pussy Riot:
“Hanno un età diversa e professioni diverse, alcune sono giornaliste altre artiste. indossano un passamontagna per restare in anonimato per nascondere ciò che fanno perchè è pericoloso, ma anche perchè non vogliono che la loro identità oscuri l’idea. L’idea è più importante delle loro singole storie. Le Pussy Riot sono un gruppo musicale punk che mette in scena performance estemporanee in spazi urbani differenti. Le canzoni delle Pussy Riot affrontano temi politici attuali. Gli interessi del gruppo sono l’attivismo politico, l’ecologia e l’eliminazione delle tendenze autoritarie del sistema statale russo attraverso la nascita di una società civile.”
Decisamente il contrario di civile sarà il processo che vedrà protagoniste le tre imputate. Il 3 marzo, infatti, in seguito alle indagini che hanno visto in campo reparti della polizia antiterrorismo , le autorità russe arrestano Marya Alyokhina e la siberiana Nadezhda Tolokonnikova con l accusa di teppismo e istigazione all odio religioso. Il 16 marzo viene arrestata un’altra partecipante alla performance, Ekaterina Samutchevic già ascoltata in precedenza come testimone del caso.Alle forze dell’ ordine appare subito chiaro come la spiccata personalità di Nadezda Tolokonnicova prevale sulle altre, in poco tempo viene definita la leader nonché la mente del gruppo. La più giovane delle tre arrestate, Nadja Tolokno, il suo soprannome è studentessa all università di filosofia di Mosca, sposata con Petr Verzilov e madre di una bambina di 4 anni era già nota per aver partecipato insieme al marito a un performance sessuale di venti persone nel meuseo biologico di Mosca nonostante fosse al nono mese di gravidanza.

Dopo quasi tre mesi di detenzione, solo il 4 giugno 2012 è stato depositato un atto d’accusa nei loro confronti, composto di 2.800 pagine. Lo stesso giorno le imputate sono state improvvisamente avvisate che avrebbero dovuto concludere e presentare le loro memorie difensive entro il 9 luglio.
Per opporsi a questa decisione le 3 donne annunciano uno sciopero della fame sostenendo che i pochi giorni assegnati dalla corte non sono sufficienti a elaborare una linea difensiva in grado di far fronte ai ponderosi atti di accusa. Il 21 luglio la corte decide di prolungare di ulteriori sei mesi la loro carcerazione preventiva.
il 17 agosto 2012 inizia la lettura del lungo dispositivo della sentenza, La giudice Marina Syrova le dichiara colpevoli dei reati contenuti nei capi d’accusa formulati. Tutt’oggi due di loro sono in colonie penali, sottoposte a duri lavori e in condizioni penose. Dal carcere scrivono che vengono continuamente minacciate di morte e non possono vedere i propri figli, se non ai loro compleanni.
Vi voglio qui riportare le dichiarazioni conclusive di una Katija Samutscevic:
“Nelle dichiarazioni conclusive ci si aspetta che l’imputato si mostri pentito, che provi rimorso per le proprie azioni o che elenchi le circostanze attenuanti. Nel mio caso, come in quello delle mie compagne ciò è del tutto inutile. Vorrei invece dare voce ad alcuni pensieri su quanto è successo.
Che la cattedrale di Cristo Salvatore sia diventata un luogo chiave della strategia politica delle autorità era già chiaro a molte persone ragionevoli quando l’ex collega (al KGB) di Vladimir Putin, Kirill Gundjaev, è diventato capo della Chiesa ortodossa russa. In breve la cattedrale di Cristo Salvatore si è palesemente trasformata in uno sfondo per i giochi politici delle forze di sicurezza, principale fonte del potere politico in Russia.
Perché Putin ha voluto approfittare della religione ortodossa e della sua estetica? Dopo tutto avrebbe potuto ricorrere ai suoi strumenti di potere, decisamente più laici: per esempio le aziende controllate dallo Stato, un corpo di polizia intimidatorio o un ossequioso sistema giudiziario. Forse le politiche durissime e fallimentari del suo governo, l’incidente del sottomarino Kursk, i bombardamenti contro i civili alla luce del giorno e altri spiacevoli episodi della sua carriera politica lo avevano obbligato a considerare l’idea di dimettersi, o altrimenti i cittadini russi lo avrebbero aiutato a farlo. Evidentemente è stato allora che ha sentito la necessità di garanzie più convincenti e trascendenti per prolungare il suo mandato ai vertici del potere.(..)
Ora provo sentimenti contrastanti riguardo a questo processo. Da un lato ci aspettiamo un verdetto di colpevolezza. Davanti alla macchina giudiziaria noi non siamo nessuno, abbiamo perso.
Dall’altro abbiamo vinto. Oggi il mondo intero sa che la causa intentata contro di noi è stata costruita ad arte. il sistema non può nascondere la natura repressiva di questo processo. Ancora una volta il mondo vede la Russia in modo diverso da come Putin cerca di presentarla durante i suoi quotidiani meeting internazionali. E’ evidente che Putin non ha mantenuto nessuna delle sue promesse relative all’istituzione di uno Stato di diritto. E le sue rassicurazioni che questa corte sarà obiettiva ed emetterà un verdetto equo rappresentano l’ennesimo inganno ai danni del paese e della comunità internazionale.”
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Casa dolce Casa: manuale per farsi “saltare” l’equilibrio mentale

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E’ un pò che non scrivo eppure me ne dispiaccio un pò.. è che ho poco tempo nonostante abbia tante cose da scrivere, ma un aggiornamento ci sta tutto.
Ho passato Leggi il resto di questa voce

una Sagra per Amica

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Quest’ anno va così. Non sono andata in vacanza all’estero perchè non avevo i soldi. Non sono rimasta a Bologna perchè non avevo il coraggio. Ma vi assicuro che con la mente ho girato il mondo 🙂
E così sono nelle Marche in vacanza da mia madre, mentre lei è in vera vacanza nel Salento. Dopo un paio di sere di sbronze serie, un pomeriggio al fiume e uno in piscina decido si fare pausa. Tanto bastano 20 minuti su facebook per avere una panoramica completa di gente in vacanza completata da foto su Instagram in tempi reali. Scopro che le mete più ambite sono Formentera, Ibiza e Caraibi, mentre un 20% preferisce viaggi ‘on the road’ o qualche meta a basso costo last minute. Se non si è del tutto soddisfatti e si hanno altri 5 minuti a disposizione il tutto viene reso più piacevole da immagini di piatti di ogni genere degustati in riva al mare con tanto di tramonto. A che serve viaggiare? Non ho ancora ben capito se immortalarsi in bikini e in tutte le posizioni sorseggiando il cocktal o ciucciando il Calippo fa accrescere l’autostima o funge da trappola per qualche maschio arrapato. Ma decido che non è il momento di farsi troppe domande, in fin dei conti sono in vacanza, perchè sforzarsi di ragionare? Insomma, fin troppo soddisfatta di ciò che ho visto penso bene di andare a letto. Peccato che della musica fuori non smette di cessare, così mi infilo qualcosa al volo e scendo di sotto per vedere cosa sta succedendo.
Proprio sotto casa mi imbatto in una sagra del paese: ci sono un paio di stand con le birre, un palco dove un adolescente sovrappeso canta una canzone di Alessandra Amoroso mentre dei bambini sotto si rotolano nella polvere. In quell’istante il mio umore rischia un calo vertiginoso e mentre sono già sulla via di casaun conoscente viene a salutarmi rifilandomi una birra. Lo seguo al tavolo e mi racconta che il giorno prima è stato arrestato per possesso di 25gr di hashish e che è agli arresti domiciliari. Mentre cerco una spiegazione logica su come faccia a stare agli arresti domiciliari e scolarsi le birre ad una fottuta sagra lui mi mostra fiero le foto dell’articolo dul giornale scattata col telefonino. Wow, dico, i giovani di qua sanno come divertirsi. Poi, sottovoce, mi informa che gente del posto ci guarda male e bisbiglia tra loro. Rido di gusto visto che la faccenda fa sentire una criminale un pò anche me, ma poi mica ci vivo qui, sticazzi e faccio fuori le 3 birre che mi hanno offerto nel giro di un quarto d’ora. Decisamente soddisfatta mi avvio verso casa. Il giorno seguente è la volta della festa in piscina che un pò di amici hanno organizzato. Tanto alcol, bagno di notte e torno a casa alle 7 del mattino in solo costume. Cazzo, dico, sembra che la gente qui sta in vacanza da una vita, è tutto meno pesante,più spensierato.
Appena un giorno di ripresa e ci organizziamo per andare al POrcofestival. Non so perchè ma appena sentito il nome me ne sono subito innamorata. Per arrivarci impieghiamo 40 minuti buoni, tutte curve. Ma ne vale la pena. Con 15eu mangi un primo squisito e arrosticini a volontà, se poi vuoi fare il ‘porco’ metti una bottiglia a 7eu tanto poi il vino cotto è in omaggio. Per essere un vero adepto dell evento basta acquistare un cerchietto con orecchie da maiale in una bancarella e se ti guardi intorno almeno la metà dei partecipanti è orecchiomunita. Quando siamo arrivati noi questo favoloso gadget era terminato ma non resisto alla maglietta con la scritta ‘maiali si nasce, porcelli si diventa’ . Quando l’atmosfera ormai si è riscaldata e il vino fa il suo dovere la ressa di gente ci trasporta letteralmente al Porco Garden una discoteca a tema che resta fedele al target. Musica rigorosamente tunz tunz e qualche rissa sparsa qua e là.. Siamo stanchi ma reattivi visto che ci attende la strada del ritorno. Mi assicuro di avere tutti i vestiti addosso stavolta e le chiavi di casa. Chissenefrega delle Maldive penso, sono fortunata. Ho ancora qualche giorno di ferie che mi aspettano delle foto come trofeo scattate con la digitale ( Non ho Instagram sul telefono :)) da condividere con voi.

Avere trent’anni e farsene una ragione

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Succede che uno prima o poi va in crisi. Alla soglia dei trent anni è quasi inevitabile, principalmente per due motivi: perchè sopraggiunge la fatidica maturità ( certo è che conosco una sfilza di trentenni altrettanto immaturi ) e perchè inizi a domandarti che cosa c’è di veramente certo nella tua vita. Sarà che è estate e dopo un pò di mare inzio a rompermi vagamente i maroni di questa situazione di stallo ma stamattina non riesco a smettere di rifletterci. Cacchio, a trent’anni uno dovrebbe avere almeno uno straccio di lavoro sicuro, possibilmente una vaga indipendenza economica, magari vivere da solo e se proprio dobbiamo esagerare avere un rappporto più o meno stabile. Per lo meno avere qualcuno con cui poter condividere un punto di vista, fare una chiacchiera e potersi fidare il giusto. Ok, non sono certo quella che crede nella faccenda dell’anima gemella e da quando il tempo delle mele è finito tutto ciò che mi rimane e che mi tengo ben stretto è il salvifico cinismo, resto però dell’opinione che in giro di sostanza c’è ben poca e che la curiosità nel conoscere persone nuove inizia a scarseggiare. Insomma inizi a chiederti se ne vale la pena e la risposta nella maggior parte dei casi è No. Ma non è questo che mi fa arrovellare il cervello, per fortuna. Avendo diversi interessi, un forte spirito di indipendenza, essendo abbastanza disillusa mi preme molto di più avere delle soddisfazioni in altri campi. Fondamentalmente mi interessa affermarmi come individuo, come donna e poter contare solo su me stessa. e qui entriamo nel vivo del ragionamento. Riuscire a prendere decisioni giuste per quanto riguarda studio e lavoro diventa necessario per fa ciò che questo accada. Ma c’è un però. Il mio percorso in questo caso è stato strano e tormentato, ho prima lavorato, poi studiato, poi lavorato e studiato e via dicendo. Ho fatto veramente dei lavori del cacchio: promoter, segretaria presso un commercialista ( non capisco un accidente di economia e bilanci ), baby sitter ( in questo caso me la cavo ancora meno ) cameriera/barista ( è un settore già più ionteressante ) ma mai realmente qualcosa che mi facesse esprimere, che mi stimolasse e facesse crescere. Ti dicono che per imparare verrai sfruttato, quindi si tratta di scegliere tra l essere sfruttato e avere dei soldi sicuri facendo un lavoro di merda. Bella scelta. A quanto pare in Italia funziona così e nemmeno ho deciso io di vivere qui, ma ormai è fatta e mi devo adeguare. Capire cosa si vuole essere e già abbastanza faticoso in più non è detto che sia realmente fattibile. Fare qualcosa che non ti piace per poter far qualcosa di interessante. Mi sembra questo ormai il giusto compromesso. Ti illudi che con la laurea le cose cambiano, ma poi ti accorgi che quando parli della triennale ti ridono in faccia (se poi la triennale è in Dams la risate è assicurata) così ci pensi, ti incazzi e decidi di imbarcarti nella specialistica. Ovviamente cambi facoltà perchè ti sei accorto anche tu di come vanno le cose. Ora. Ora il mio ex datore di lavoro, il commercialista, sarebbe contento visto che mi tocca passare il mio tempo libero su libri di statistica e capire come le teorie sociologiche influiscono sulla pubblica opinione. Ma non c’è tempo da perdere e non ho nemmeno voglia di lamentarmi. Ho imparato in questi anni di burrascosa vita universitaria che l’elasticità mentale è un talento che i libri non insegnato ma fa comunque parecchio comodo, così mi armo di pazienza e mi costringo a non perdermi d’animo. In fin dei conti ricominciare, cercare sempre cose stimolanti inizia a piacermi non poco. In fin dei conti avere trent’anni, essere consapevoli e possedere un certo spirito critico non è poi così male. E magari questa volta potrei essere sulla giusta strada.